La teologia del cinghiale di Gesuino Némus

Nel luglio 1969 l’uomo mette piede sulla Luna per la prima volta, quasi a coronamento del boom che, in quel decennio, coinvolge ogni aspetto della società. Anche a Telèvras, piccolo paese sardo, giunge l’eco dell’epopea statunitense, ma in quei giorni caldissimi la comunità si trova alle prese con una vicenda molto più terrena.

All’alba del 22 luglio viene rinvenuto il cadavere di Bachisio Trudìnu, latitante scomparso da due settimane; è l’inizio di un caso destinato a farsi sempre più intricato. Il corpo è stato parzialmente sbranato dai cinghiali, ma da quello che resta non emergono tracce di ferite che facciano pensare a un colpo d’arma da fuoco. Sembra improbabile quindi che l’uomo sia stato ucciso da un rivale.

Il maresciallo De Stefani e il carabiniere Piras indagano per far luce sul mistero che si infittisce con la scoperta di un altro cadavere e con la sparizione di Matteo Trudìnu, figlio di Bachisio, rimasto orfano anche della mamma, che si è impiccata dopo aver appreso della morte di suo marito. Il bambino è forse fuggito e ha trovato un nascondiglio sicuro in un anfratto dei monti? O forse è stato ucciso? E la mamma si è suicidata per la disperazione? Numerosi sono i punti oscuri in questa brutta storia.

Un giallo è l’ossatura di  La teologia del cinghiale (Elliot Edizioni, 2015, pp. 240), la bizzarra opera prima di Gesuino Némus, eteronimo dello scrittore sardo Matteo Locci, che con questa prova di esordio ha conquistato il favore della critica e si è aggiudicato ben cinque premi letterari. Bizzarra lo è fin dal titolo che suona come un ossimoro, sintesi di sacro e profano, di spirito e materia. Una vis dissacratoria e ironica pervade il romanzo, che davvero si può definire sospeso tra cielo e terra, tra le cose religiose e le umane passioni.

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Trait d’union tra le due dimensioni è don Egisto Cossu, il parroco gesuita del paese, che, oltre a esercitare la missione pastorale, non disdegna di partecipare a estenuanti battute di caccia al cinghiale e ai succulenti banchetti “offerti” dalla povera preda.  Il curato ha preso sotto la sua ala protettiva Matteo e Gesuino, dodicenne ritardato, anzi considerato proprio un minus habens. I due ragazzini sono legati da un’ amicizia sincera e profonda, suggellata dal “giuramento di Polifemo”.

“I nasi si toccano e ci si guarda negli occhi. […] Se si riesce a vedere un solo occhio, come quello di Polifemo, vuol dire che è come la storia della mela di Platone […]. Se uno ha il naso più lungo dell’ altro o l’occhio che gli balla in modo diverso, tutto si scontorna e allora non si vede più un solo occhio e vuol dire che le persone non sono simili”

Per tenere fede a questo giuramento, Gesuino, unico depositario della verità sulla scomparsa di Matteo, non ne farà parola con nessuno.

“La verità è nella follia”

Così dice don Cossu; e Gesuino sarà anche folle, ma è altrettanto tenace e fiero nel custodire il segreto dell’amico.

“Ma la verità è più forte dell’amicizia […]”

E solo molti anni dopo, Gesuino si deciderà a confessare ciò che sa, e lo farà in un modo assai inusuale, come un novello Martin Lutero.

L’amicizia è uno dei cardini del romanzo. Matteo è un piccolo genio, un vero enfant prodige. Anche Gesuino, a suo modo, è un genio; è vero, non parla, ma scrive. Scrive “libri che durano un giorno”, scrive riflessioni, scrive le proprie memorie. Nèmus ci sorprende con un inatteso cambio di prospettiva, per cui il narratore esterno che ci accompagna nei primi capitoli, nell’ottavo cede la parola proprio a Gesuino che si fa narratore interno.

La prosa di Nèmus-Locci è eccentrica e non può essere diversamente. Gesuino “il matto” scrive seguendo il corso dei propri pensieri, il flusso della sua coscienza la cui naïvetée non si lascia ingabbiare dalle regole sintattiche né si preoccupa della punteggiatura. E Gesuino-Locci, figlio della Sardegna, intesse la scrittura di parole, frasi, interi dialoghi in lingua sarda, perché il sardo rappresenta l’identità di quel popolo. 

Non è un dialetto o un intercalare: è una lingua! La loro lingua!

Oltre ai personaggi, la Sardegna è la grande protagonista del romanzo. Una terra mitica, primitiva, la cui bellezza selvaggia toglie il fiato al visitatore che si trova catapultato nell’Eden. Una terra aspra e generosa, madre che nutre la propria prole, la nasconde nelle proprie viscere, e ne ricambia l’amore.

E l’amore di Gesuino Nèmus-Locci per la sua terra si avverte tutto; mentre la penna punzecchia e ironizza su certi vizi del carattere sardo, possiamo stare certi che gli occhi sorridono complici a quella gente fiera e allegra, ruvida e buona come il pane che essa usa fare in casa.

Durissima la crosta; morbidissima e fragrante la mollica. […] Perché è il pane che ti dice quello che vuoi sapere di un popolo.

 

 

E quello sardo è un popolo genuino.