“C’era una volta”. Così iniziano tutte le fiabe che si rispettino. Fiabe che parlano di magia, di incantesimi ed eroi coraggiosi. Di infanzia. A volte la vita stessa è una fiaba — o quasi. Anche quella delle mamme.
Ed ecco allora che C’era una mamma (Giaconi Editore, 2020, pp. 188), della digital strategist e blogger Daniela Zepponi — parafrasando l’incipit di cui sopra — narra le peripezie semiserie di una mamma alle prese con i propri bimbi. Questa tenera opera è un canto d’amore per i suoi piccoli Tommaso e Matilde e per tutti i bambini del mondo.
L’amore per Tommy e Mati è nato ancora prima che essi nascessero. Daniela cerca di spiegare cosa sia l’amore per un figlio e lo fa mettendo nero su bianco le proprie emozioni. Il suo intento è quello di circoscrivere, definire e distillare questo sentimento ineffabile. La conclusione cui Daniela giunge è che l’amore non si possa spiegare ma solo trasmettere. La nostalgia si declina come ricordo. Essa ghermisce guardando le scarpette di un figlio che ora indossa un 38; è il primo dentino spuntato a Matilde; ma è anche il ricordo della propria infanzia. Per una mamma è importante ridere. Il divertimento ha un potere terapeutico che aiuta ad alleggerire la tensione della vita da madre. Una vita che diventa improvvisamente caotica e movimentata. Ma si tratta di un fantastico e allegro caos tra cambi di pannolini e di “penthatlon” per portare i figli a scuola. La tenerezza è un sentimento rivoluzionario in un mondo frenetico e impazzito. È lieve, la tenerezza; è il tocco della mano di un papà che stringe quella piccina del figlio; è la felicità data dall’abbraccio del proprio bambino, una felicità che andrebbe distillata in gocce e chiusa in una boccetta per alleviare i momenti più duri. Ed è una cura. Sì, essa ha il potere straordinario di guarire un figlio al suono di una ninna nanna. Essere madre richiede coraggio: coraggio di rivendicare i propri diritti, di saper dire di no, di fare in modo che le paure dei genitori non condizionino i figli e, sì, coraggio di ignorare il giudizio altrui. Il dolore ha molte forme. Esiste la paura del dolore, il dolore fisico, quello spirituale e quello legato a una perdita. Ma tutte queste manifestazioni sono legate da un fil rouge, ossia il senso di speranza che addolcisce anche il dolore più acuto. Daniela ha sperimentato la sofferenza fisica e quella legata alla morte dell’adorato padre ma la nascita di Tommaso e Matilde ha ridato gioia al suo cuore “malandato”, ha asciugato le sue lacrime e le ha donato la forza di guardare con serenità al futuro.
L’Amore è un mistero insondabile, a maggior ragione quello verso i figli. Esso è un oceano, un immenso mare nella cui vastità è dolce annegare. L’Amore è multiforme, sfaccettato come un prisma. Ha mille volti: quello del proprio compagno, quello dei figli, quello di un genitore o di un fratello. Esiste l’Amore per la Patria e quello per un’Entità Superiore, Dio o qualunque altro Essere Supremo. Si nutre di baci, di abbracci, di sospiri ed emozioni profonde, di “ti voglio bene” detti o sottintesi, di parole pronunciate ad alta voce o solo sussurrate, di gesti semplici ma pregni di valore, di “sì” e di “no”. Perché anche certi “no” sono dettati dall’Amore e servono a chi li riceve a crescere e maturare. L’infinito Amore di una madre è discreto, sa farsi da parte e assistere all’ingresso del figlio — forte del bagaglio di insegnamenti e valori che ella gli ha trasmesso — nel mondo degli adulti. L’Amore infatti è saper lasciare chi ami libero di spiccare il volo e perfino di sbagliare. Una mamma sa che il figlio inevitabilmente si staccherà da lei, lo sa fin dal primo momento che lo prende fra le braccia. E lo accetta come verità ineluttabile. L’Amore deve essere davvero il fulcro dell’umana esistenza, se Sant’Agostino ne fa la chiave di volta della comprensione. Il professor Enzo Corradini, nel suo Lungo il viale e oltre, ha dato dell’Amore una definizione mirabile: “[…] esso è un componente importante dell’animo umano e, a guardarlo bene, un componente sui generis: ha un’apertura e un dire che gli sono peculiari, una sintassi e una punteggiatura specifiche per cui i fatti, sempre gli stessi, nella sua ottica acquistano tutt’altro significato. Ha anche un lessico proprio, perché parole come speranza, fede, eroismo, rinuncia, dedizione, ascetismo, Dio, raggiungono la pienezza del loro significato soltanto in esso. Ha anche addirittura un suo codice genetico che prescinde dalle eleganti spirali del DNA”.
Amore è quando fai di tutto per camminare accanto a chi ami. È quando rallenti il passo per non lasciare nessuno indietro. E quando, se la vita te lo chiede, li prendi in braccio e cammini tu per tutti.
La maternità, altro grande pilastro di C’era una mamma, non è soltanto una condizione fisica o uno stato giuridico; essa è piuttosto una disposizione dell’animo presente in nuce anche nel cuore di chi non ha ancora figli. È quell’istinto di sollecitudine e protezione che le donne provano quando vedono la testina ricciuta o la manina protesa di un bimbo, quando lo guardano nei suoi occhi ancora ingenui e non contaminati dalle brutture del mondo.
Il corpo delle mamme è un’astronave che traghetta un minuscolo viaggiatore nel mondo dei no, fino alle nostre braccia. È un veliero che cresce, spinto da un uragano che si porta dentro e cambia di forma in forma per nove mesi. […] Il corpo delle mamme è impastato d’amore e d’acciaio, come il nostro cuore. Resiste a tutto, per tenere quel figlio tra le braccia.
Purtuttavia la maternità si basa su un dualismo di fondo. Da un lato essa è una condizione beata, la realizzazione di un percorso durato nove mesi in cui mamma e figlio sono tutt’uno e i loro cuori battono all’unisono. Il sorriso di un piccolo al mattino permette di affrontare con positività la giornata più dura e la sera allevia la stanchezza o il malumore per qualche grana sul lavoro. Il “ti voglio bene” detto dal proprio bimbo o anche solo sentirsi chiamare “mamma” ripagano ogni sacrificio.
Dall’altro lato però la maternità si pone sotto il segno di quello che potremmo definire “alpha privativo”, della mancanza, o meglio della rinuncia. Sì, perché essa comporta la rinuncia alle uscite con le amiche nelle notti un po’ pazze, o alle sigarette e ai mojitos per garantire la salute alla creatura che è nel grembo. La maternità porta con sé notti insonni e corse tra la scuola e lo sport; richiede la capacità di incastrare i propri impegni con quelli dei figli; in una parola comporta la crescita dalla vita spensierata e quasi adolescenziale alla consapevolezza della propria responsabilità verso un altro essere vivente che dalla mamma dipende in tutto e per tutto. A volte la maternità è dolce, altre è pesante, addirittura dolorosa ma è sempre agire per il bene del proprio figlio.
Un racconto narra di un ragazzo a cui viene chiesta una prova d’amore da parte dell’amata. “Portami quello che hai di più caro”, dice questa. Il giovane, confuso ed esitante, capisce che la cosa più preziosa che possiede è la mamma. Dopo giorni di tormento e indecisione egli uccide quest’ultima e le strappa il cuore. Nel portarlo alla ragazza egli inciampa e dal cuore la voce della madre gli chiede: “Figlio, ti sei fatto male?”. Ecco cos’è la maternità: un Amore così immortale e sconfinato che perdona sempre.
Un altro nucleo tematico che emerge dal lavoro della Zepponi è l’importanza della Famiglia, la quale non è solo uno stato civile ma un’avventura dell’anima, un viaggio del cuore. Essa è fatta di calde braccia che accolgono e coccolano, di dita che asciugano lacrime e di bocche che sorridono. La famiglia è la prima scuola dove si imparano parole come “grazie”, “prego”, “scusa” e getta le basi di uomini e donne del futuro. Noi siamo la nostra famiglia, nel senso che siamo ciò che essa ci ha trasmesso, l’educazione e i valori che ha inculcato non solo con le parole ma anche con l’esempio. La famiglia è il rifugio tranquillo, il porto sicuro e la corazza che nessuno può scalfire.
C’era una mamma esibisce una struttura ettagonale: sette capitoli ciascuno dedicato a un sentimento cui viene attribuito un corrispondente cromatico ispirato all’arcobaleno. Figurano così l’Amore dipinto di rosso, la Nostalgia di giallo, la Tenerezza di verde, il Coraggio di blu, il Dolore di indaco e la Speranza di viola. Il cromatismo emozionale fa di C’era una mamma un’opera allegra, gioiosa anche nelle pagine più dolorose. La prosa di Daniela è lieve come il battito di ciglia di un bimbo, impalpabile e dolce come zucchero filato. Profuma di infanzia, di giochi, di biscotti e latte. Una prosa magica che evoca draghi e fate, castelli e principesse: il fantastico mondo dei bambini viene a galla in controluce con la loro schiettezza disarmante a cui noi adulti dovremmo riabituarci.
Non c’è fabula e non c’è intreccio; il lavoro della Zepponi è una sorta di diario intimo in cui sono immortalati sentimenti, sensazioni e impressioni che, come una miriade di goccioline d’acqua colpite dal sole, vanno a formare l’arcobaleno. Infatti la struttura diaristica dell’opera non soccombe al rischio della frammentarietà ma è un continuum omogeneo. La penna di Daniela Zepponi è camaleontica: lirica, ironica, dissacrante, perfino esilarante quando tratta gli aspetti tragicomici della maternità. È questo che ci piace della scrittura di Daniela: la schiettezza, la sincerità di ammettere che quello della mamma è un bel lavoro, sì, ma decisamente faticoso, senza per questo volersene lamentare. D’altra parte questo aspetto è messo in evidenza dal sottotitolo Una vita quasi da favola. Quindi tutte possiamo riconoscerci in queste pagine: chi è già mamma vi vedrà riflessa se stessa, chi non lo è potrà empatizzare con una giovane donna moderna dalla vita frenetica.
E stringere in mano C’era una mamma è come stringere un pezzo di arcobaleno.