L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio

In Sardegna, nella Sardegna rurale e ancestrale, il figlio partorito da una donna povera e adottato da una famiglia benestante è detto fillus de anima , “figlio dell’anima”.
Tale è la protagonista de L’Arminuta(Einaudi editore , 2019, pp. 170), breve e struggente romanzo di Donatella Di Pietrantonio , vincitore del Premio Campiello nel 2017.

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Nell’agosto 1975, a tredici anni, la giovane viene riaccompagnata dal padre adottivo in seno alla famiglia di origine. La ragazzina sarà chiamata da tutti “l’arminuta”, “la ritornata”. Ella sale le scale della nuova casa con una valigia in una mano e una borsa piena di scarpe nell’altra. Ad aprirle è una bambina con le trecce sfatte: è la sorella minore Adriana. L’arminuta ha anche tre fratelli maggiori e uno ancora in fasce, Giuseppe. Vincenzo, il più grande di tutti, è affabile e protettivo con lei, mentre Sergio è polemico e litigioso. L’arminuta scrive a Adalgisa, la madre adottiva, e le confida il proprio disagio, psicologico e materiale; per tutta risposta la donna le fa recapitare un letto a castello e ogni settimana le corrisponde una piccola somma di denaro.
Ricomincia la scuola. L’arminuta viene emarginata dai compagni ma eccelle nello studio. Il destino bussa alla porta della sua nuova famiglia e Vincenzo perde la vita in un incidente con il motorino. La ragazza viene iscritta a un liceo in città; Adalgisa, le annuncia che non può ospitarla e che alloggerà nella casa della signora Bice come pensionante. Adriana vorrebbe seguirla in città ma, difronte al diniego della sorella, le urla in faccia la verità sull’abbandono da parte dei genitori adottivi. Si tratta di una rivelazione che sconvolge l’arminuta e tutte le sue certezze e la getta nella più cupa disperazione.
L’arminuta nasce due volte: quando viene alla luce e quando viene adottata. E due volte vive l’abbandono: quando i genitori biologici la cedono e quando lo zio la riporta a casa. Ella si trova catapultata da un presente sereno in un passato di cui non conserva memoria. È in una terra di nessuno:  vede svanire la famiglia in cui aveva creduto e quella di origine non la sente come sua. E, due volte orfana, l’arminuta si sente defraudata degli affetti più cari e sperimenta uno strappo, una frattura nella propria vita. Non è più figlia di Adalgisa, non è ancora figlia dei genitori biologici.

Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo.

Ella non usa mai le parole “mamma” e “papà” per rivolgersi a questi ma li definisce “la madre” e “il padre”. Quando deve attirare la loro attenzione invece di chiamarli inventa espedienti per farsi notare.

Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.

Sono due universi opposti quelli in cui l’arminuta si trova scissa, anche dal punto di vista geografico; la famiglia adottiva, quella della città , la faceva sentire amata e protetta, le permetteva di frequentare la piscina e studiare danza. Ben diversa è la famiglia del paese, immersa in una realtà più prosaica e modesta; le preoccupazioni materiali soffocano le manifestazioni di affetto, una diversa cultura mette al bando le parole dolci e le coccole. È gente scabra, questa, resa ruvida dalle asperità di una vita misera e grama, fondata sul lavoro umile e sulla fatica.
Dal giorno in cui Adriana le ha aperto la porta della sua nuova casa, l’arminuta attende che lo zio-padre torni a prenderla per condurla con sé in città, questa volta per sempre. Attende pazientemente, come Penelope attende il suo Odisseo, tenacemente e instancabilmente. Nella sua ingenuità fanciullesca ella crede che Adalgisa sia malata e non voglia crearle apprensione ma, una volta guarita, tutto tornerà come prima e la vita in paese sarà solo un ricordo lontano. Ma così non è e quando Adriana si lascia sfuggire la verità tutte le speranze della sorella crollano miseramente. E la delusione, quella cocente e feroce, provoca una rabbia che prende allo stomaco, Un rancore che pulsa nelle tempie. un altro strappo, un’altra ferita nella giovane esistenza della ragazza.
Non conosciamo il nome della protagonista; per il paese è “l’arminuta”, la signorina che viene dalla città, conosce le buone maniere e parla in italiano, a differenza dei compagni di classe.
Adriana è una bimba di dieci anni, è vivace e sveglia. È suo il primo volto che l’arminuta vede all’inizio della sua nuova vita. Adriana è una guida, una spalla e una confidente per la sorella ritornata. Da lei, “fiore improbabile cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia”, quella apprende la resistenza. Ma Adriana è anche la spietata Parca che recide il filo della speranza . Eppure, superato questo banco di prova, il loro legame resterà saldo anche dopo decenni.
Donatella Di Pietrantonio sceglie la soluzione omodiegetica. L’io narrante è l’arminuta che, con un periodare nervoso, ricuce la trama della propria esistenza lacerata. Frasi brevissime si rincorrono veloci a estrinsecare la tensione emotiva e gli spasmi di un’attesa lunga, dolorosa e disillusa. La scrittura scabra e asciutta della Di Pietrantonio riesce comunque a conferire grazia e delicatezza a una materia deflagrante e a una vicenda che si presenta come un groviglio di dolore e pathos . E grazie a una penna sapiente questo grumo si dipana e si scioglie nello struggimento del ricordo di una storia rivissuta alla distanza. Sono trascorsi anni e le vicissitudini dell’arminuta sono ripercorse attraverso lo schermo di una rassegnazione pacata, di un’amarezza contenuta.
Inserti dialettali contribuiscono alla caratterizzazione dei personaggi.
Quello della maternità è un tema caro alla Di Pietrantonio che lo affronta anche nei romanzi precedenti, Mia madre è un fiume , vincitore del Premio Tropea, e Bella mia che si è aggiudicato il Premio Brancati e il Premio Vittoriano Esposito Città di Celano. Sono tutti superbi ritratti al femminile, superbi ritratti di donne e di madri; donne forti e solide come le rocce d’Abruzzo. Donne sconosciute alla grande Storia ma che hanno costruito giorno dopo giorno, con tenacia e passione, la propria personale storia e quella della loro famiglia.

L’isola di Arturo di Elsa Morante

Cosa hanno in comune una stella, un re e un ragazzo? Il nome: Arturo. Una stella, un re e un giovane intrepido. Sembrano i personaggi di una fiaba.
“C’era una volta”, così potrebbe iniziare L’isola di Arturo (Giulio Einaudi editore , 2019, pp. 398), incantevole romanzo di Elsa Morante , vincitore del Premio Strega nel 1957. Quell’incipit si addice all’opera per il carattere fiabesco che la caratterizza.

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Il giovane Arturo vive sull’isola di Procida. Orfano di madre – morta nel darlo alla luce -, egli è stato allevato dal balio Silvestro che lo ha nutrito con latte di capra. Il padre Wilhelm, italo-tedesco, è spesso in viaggio quindi il bambino trascorre le sue giornate pressoché solo nella Casa dei guaglioni che il genitore ha ereditato da Romeo l’Amalfitano. Quando Arturo ha quattordici anni Wilhelm sposa in seconde nozze Nunziata, poco più che adolescente e quasi coetanea del figliastro. Dopo l’iniziale simpatia per la matrigna, Arturo inizia a nutrire per lei diffidenza e fastidio perché si sente spodestato dal cuore del padre e defraudato delle di lui attenzioni. La convivenza si rivela quindi difficile. Wilhelm riparte poco dopo il matrimonio lasciando Arturo solo con Nunziata. Il ragazzo si impegna a essere sempre più duro nei confronti della donna e non perde occasione per mortificarla. Nunziata resta incinta. I mesi volano nell’assenza di Wilhelm. Arriva il momento del parto che sancisce la riconciliazione tra Nunziata e Arturo, il quale ha temuto per la vita della matrigna e tutto il suo malanimo viene spazzato via dalla prospettiva della morte della donna. Al neonato viene dato il nome di Carmine Arturo. Quando il padre torna, il piccolo ha già un mese; l’uomo è profondamente cambiato: più cupo, chiuso e tetro, Arturo non conosce né riesce a immaginare la ragione di quello stato d’animo. Intanto il ragazzo comincia ad essere geloso del fratellastro che gode dell’amore di una madre, quell’amore che a lui è stato negato. Per attirare l’attenzione di Nunziata, ora assorbita dal figlio, Arturo inscena un finto tentativo di suicidio. L’espediente sortisce l’effetto sperato e la matrigna si prodiga per la salute di Arturo. Quando il giovane si ristabilisce avviene l’inevitabile: egli vince ogni ritrosia e bacia Nunziata. I rapporti si deteriorano nuovamente; durante una fugace avventura con Assunta, Arturo si scopre innamorato della matrigna ma, non potendo averla, intreccia una relazione con l’altra donna. Wilhelm nasconde in casa un galeotto, a cui sembra legato da profonda amicizia. Privato dell’affetto del genitore, precluso l’amore di Nunziata, Arturo accarezza l’idea di abbandonare l’isola e di lì a poco si presenta l’occasione. Il giovane lascerà davvero la sua casa? Verso quali avventure si sente proiettato?
La sola realtà che Arturo conosce è l’isola. Presenza immobile e immota, essa accompagna e scandisce le varie fasi della prima fanciullezza del ragazzo. Quando egli, bimbo felice, gioca, quando ride, quando piange, quando soffre, quando ama, essa, sullo sfondo, stat , si erge, sta. È immobile, si è detto, ma brulica di Vita; l’isola ha dato ad Arturo carne e sangue, lo ha nutrito e allevato. Procida gli è madre; aspra, selvaggia, lo abbraccia con i suoi arti rocciosi, lo bacia con il soffio del vento che gli accarezza la pelle, lo culla intonando la dolce nenia delle onde che lambiscono la spiaggia. L’isola è uno spazio circoscritto, una sorta di Eden, un locus amoenus che contiene la presenza fisica di Arturo ma non la sua fantasia, che trascende quel perimetro e si proietta verso altri mondi, oltre le Colonne d’Ercole in uno spazio misterioso e vagheggiato. Arturo ha una fervida immaginazione, nutrita dallo studio e dai libri, che lo rende affamato di avventure, assetato di imprese gloriose.

Avevo sempre rimpianto che, ai tempi moderni, non ci fosse più sulla terra qualche limite vietato, come per gli antichi le Colonne d’Ercole, perché mi sarebbe piaciuto di oltrepassarlo io per primo, sfidando il divieto con la mia audacia; e allo stesso modo, adesso, guardando lo stellato, invidiavo i futuri pionieri che potranno arrivare fino agli astri.

E come Odisseo, figlio di Itaca, è costretto dai Fati a lasciare la Patria, così Arturo, figlio di Procida, avverte l’urgenza di esplorare altre realtà.
Arturo incarna l’eterno anelito dell’uomo verso l’infinito, verso un “oltre”, verso la pienezza della conoscenza. È il respiro universale dell’Io che si frantuma per poi ricomporsi in una nuova unità e identità attraverso l’esperienza del dolore. Vuole oltrepassare le Colonne d’Ercole, Arturo e, sia pure a suo modo, lo farà: attraverserà quella linea che separa la fanciullezza dall’età virile; attraverso un travaglio disperato e doloroso, dall’embrione del bambino nascerà il giovane uomo, pronto a conquistare il suo avvenire glorioso.
Arturo adora il padre che gli appare quale una divinità olimpica: biondo, occhi azzurri, fisico prestante, Wilhelm incarna la persona che il figlio vorrebbe essere.

Dei discorsi di mio padre […] io, a quel tempo non potevo intendere altro se non quanto rispondeva alla mia certezza indiscussa: che lui, cioè, fosse l’esempio incarnato della perfezione e felicità umana! […] Io, a somiglianza dei mistici, non volevo ricevere spiegazioni da lui, ma dedicare a lui la mia fede. Quello che aspettavo da lui era un premio per la mia fede

Questa idealizzazione infantile è destinata ad andare in frantumi. Nel corso del processo di maturazione di Arturo essa mostra le prime crepe per poi crollare come un castello di carte quando il ragazzo giunge alle soglie dell’età adulta. Allora Wilhelm gli si mostra in tutta la sua imperfezione, in tutta la sua umana fralità. Più che per il “tradimento” che il genitore consuma ai suoi danni, Arturo sperimenta il dolore, la delusione amara di constatare che quell’essere superiore in cui aveva creduto non esiste, è solo la proiezione della sua infantile suggestione. Questa discrasia tra l’immagine ideale e quella reale del padre mette in crisi Arturo, costretto a rivedere quelle Certezze Assolute che aveva creduto di padroneggiare. E allora cosa gli rimane? Gli rimane se stesso. È da se stesso che egli vuole ripartire. Non ama più Nunziata, non odia più Wilhelm. Ora, libero dai lacci dei sentimenti infantili, Arturo è rigenerato e rinato in una sorta di palingenesi che affonda le radici nella sofferenza. Come dopo la tempesta il mare si placa, così, dopo il tumulto di passioni in lotta tra loro, Arturo ritrova la pace.
Il ragazzo nasce e cresce in un universo maschile – financo la sua dimora, la “Casa dei guaglioni”, reca nel nome questa sorte. Un universo maschile sostanzialmente misogino, a partire da quel Romeo l’Amalfitano che non faceva mistero di odiare le donne e si circondava di soli uomini. E tuttavia, in parte, anche Wilhelm e Arturo condividono questa linea di pensiero; per loro le femmine sono esseri brutti, pressoché inutili e di scarsa intelligenza. Fino ai quattordici anni dunque il contatto di Arturo con il mondo femminile è limitato al vagheggiamento, a una sorta di malinconica nostalgia per quella madre bambina perduta di cui ogni tanto guarda l’unica foto che gli è rimasta. È pertanto un’irruzione inaspettata nella sua vita quella dell’elemento femmineo che ha le fattezze di Nunziata, l’amore che ha il fascino del proibito, lo struggimento per ciò che non si avrà mai e di Assunta, la passione carnale, sfogo delle pulsioni , quasi un povero surrogato dell’irraggiungibile matrigna.
La Morante sceglie con cura le parole, calibra le frasi, modula i periodi plasmandoli entro la misura di una leggerezza che finisce per acquistare un peso specifico il quale dà forma e sostanza alla leggerezza pesante degli anni di Arturo, alla levità potente delle sue passioni. È una scrittura, quella della Morante, in cui la Vita urge, le pulsioni premono entro il limite di uno stile pacato e, alla fine, esplodono. È una prosa incantata, magica, che situa la materia narrata in una dimensione mitica.
Brillante e sofferto, sagace e ricco di pathos, l’intreccio procede fluente in un climax emotivo che rende il ritmo sempre più serrato.
Arturo è l’io narrante; la soluzione omodiegetica adottata dalla Morante fa del romanzo una raccolta di memorie: il giovane ripercorre due anni della propria vita, dai quattordici ai sedici, che rappresentano il ganglio nodale della sua esistenza e lo conducono al disinganno. Arturo, alla distanza, guarda al se stesso che è stato con tenero affetto, con commossa partecipazione.
Il tempo è passato ma il ricordo ancora graffia.