Storia di Roque Rey di Ricardo Romero

Alcuni libri hanno il potere di risvegliare ricordi lontani, come fossero la famosa madeleine proustiana. Ho sperimentato questa specie di operazione archeologica del mio vissuto leggendo Storia di Roque Rey (Fazi Editore, 2017, pp. 528, trad. di Vittoria Martinetto), di Ricardo Romero, argentino, classe 1976, penna assai apprezzata nell’attuale panorama letterario del suo Paese. L’Argentina di Romero è il teatro di questo romanzo che ammicca al Realismo Magico e in ogni pagina ho avvertito i colori, i sapori e i suoni che ho percepito durante il mio viaggio in quella terra sconfinata; e ho ritrovato i nomi di alcune delle città che ho visitato — Rojas, Junín, Buenos Aires e molti altri. Ecco perché ho parlato di archeologia dei ricordi.

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Storia di Roque Rey si presenta da subito come un romanzo che tende la mano al fantastico, a cominciare dalle origini di Roque, le quali hanno un che di mitico. Egli si annuncia al mondo solo il giorno della nascita, quando è una creatura già perfettamente formata, quasi non fosse stato plasmato per nove mesi nel ventre della madre, ignara fino all’ultimo istante di quella vita che le sbocciava dentro. La donna non ha la stoffa per fare la mamma e “cede” il neonato alla sorella. Roque festeggerà sempre il compleanno con due mesi di ritardo, a datare da quel sabato pomeriggio in cui gli zii Elsa e Pedro lo presero con loro.
Quando Pedro muore, la vedova chiede al nipote di camminare con le scarpe del defunto per allargarle e renderle più comode in vista del suo ultimo viaggio. Il ragazzo non tornerà più a casa. Inizia così il lungo pellegrinaggio di Roque attraverso l’Argentina, nel corso del quale egli incontra vari tipi umani. Per poco tempo viaggia con Umberto, un prete parricida ossessionato dai propri fantasmi. In seguito Roque viene ingaggiato come ballerino dal gruppo dei Los Espectros, con cui il giovane si esibisce per qualche anno, fino a quando si ridesta in lui quello spirito gitano che lo spinge a lasciare i compagni e a partire da solo.
A Buenos Aires Roque conosce Marcos Vryzas, studente di Filosofia con cui si dà alla vita notturna e dissoluta, trova l’amore, che ha gli occhi neri di Mariana Gallardo, e inizia a lavorare all’Obitorio Giudiziario. Come anni prima aveva indossato le scarpe dello zio, adesso va camminando per la Capitale con quelle dei morti che gli sfilano davanti ogni giorno; attraverso esse, Roque riesce a penetrare nei segreti più nascosti di chi le aveva calzate in vita.

«Le scarpe sono molto di più di un capo di vestiario. […]Non sono nient’altro e nientemeno che gli intermediari fra noi e la terra. Sono loro che si fanno carico del peso dei nostri corpi e anche […] delle nostre anime. Sono il ricettacolo finale di quanto procrastiniamo, dei nostri desideri più reconditi, dell’elettricità segreta di quei sogni che non siamo in grado di ricordare al risveglio. […] Le terminazioni nervose dei nostri piedi, lungo le piante, ricevono l’eco, la vibrazione finale di tutto quanto ci accade, e saranno le scarpe il luogo dove si depositeranno»

L’incontro con Natalia, una bambina la cui bellezza straordinaria è pari a un’intelligenza superiore alla media, segna un altro cambiamento nella vita di Roque. Ancora una fuga, ancora una città; qui la strana coppia si spaccia per padre e figlia. La parvenza di famiglia che Roque forma sposando Inés è un’illusione e, rimasto definitivamente solo, egli non può fare altro che rimettersi in marcia, questa volta senza scarpe.
Romero costruisce il romanzo sul campo semantico del cammino: i passi di zio Pedro sono il primo ricordo che affiora nella memoria di Roque; i passi che il ragazzo deve compiere nell’isolato per allargare le scarpe del morto si susseguono in un vagabondaggio per la città; da questa Roque scappa e molte altre ne raggiunge nel corso degli anni.

E ogni volta che Roque sembra trovare una stabilità, ecco riemergere quella inquietudine esistenziale che gli impedisce di mettere radici in uno stesso luogo. Allora egli riprende il cammino, che altro non è se non l’ennesima fuga. Da cosa fugge Roque? Da un passato segnato dall’abbandono del padre — anzi, dall’assenza dell’uomo che non ha mai saputo di avere un figlio — e della madre; il ragazzo poco sa delle proprie origini, giusto i vaghi pettegolezzi che ha carpito tra i parenti. La sua vita è un pellegrinaggio — come quelli a cui lo costringeva la zia Elsa — alla ricerca di sé, o meglio di una prospettiva che gli restituisca l’immagine autentica di sé, che gli mostri con chiarezza chi è Roque Rey, senza maschere né interferenze.

«Bisogna fare il giro del mondo per vedere se stessi di spalle mentre si cammina. […] I suoi passi gli dicevano a quali passi doveva pensare. A quali camminate. Dove si trovava di spalle. Ed era di spalle sulla rotta dei morti. […]Era lì il segreto della sua esistenza»

Non solo Roque compie delle incursioni oltre il confine tra la vita e la morte, ma i morti, a loro volta, si affacciano sul mondo dei vivi, come due insiemi matematici che si intersecano. La naturalezza con cui queste due dimensioni si sfiorano diffonde nel romanzo un’atmosfera di magia impalpabile. Una prosa straniante, dunque, quella di Romero, che ricorda lo stile di García Márquez — maestro del Realismo Magico — in cui, dietro lo schermo di una realtà apparentemente normale, si coglie una nota stridula che ne distorce la percezione.

«Nessun morto era sufficientemente morto e nessun vivo sufficientemente vivo da non potersi incontrare a un incrocio, in un’alba fra tante»

Non c’è molta azione in Storia di Roque Rey , che privilegia piuttosto il percorso — ecco di nuovo un vocabolo legato al cammino — esistenziale del protagonista, eppure la lettura non annoia affatto, anzi il lettore si scopre suo compagno di viaggio. Un viaggio lungo quarant’anni, durante i quali anche l’Argentina segue il proprio sviluppo storico, non sempre indolore.

«[…]La Storia è come una donna. Periodicamente, a intervalli, sanguina. Guerre mondiali e civili, guerre sante […]. È la Storia con le gambe aperte che lascia cadere a fiotti il sangue dei popoli. Ed è sangue morto quello che le esce. […] La Storia mestrua. Si dissangua. E il sangue che sgorga da lei è quello di migliaia di disgraziati come noi che non capiscono niente di quel che succede»

Se è vero che la vita è un cammino — ricordiamo l’incipit della Commedia di Dante — le peregrinazioni di Roque sono una metafora del percorso che ogni individuo e l’umanità intera compiono durante la propria esistenza: come tensione verso una meta, come evoluzione spirituale, come crescita e maturazione. Roque non torna mai indietro, così come non si volge mai indietro il corso della Vita, del Tempo, della Storia; è un incedere continuo, che può rallentare o accelerare, ma non fermarsi, segnato da tappe e guidato da una “bussola”. Roque trae l’orientamento dalle scarpe dello zio. Esse sono quasi un prolungamento del suo corpo; aspirandone l’odore vi riconosce il proprio. Le tratta come esseri senzienti, parla e confida loro pensieri e preoccupazioni.
Il gesto di togliersi le scarpe e abbandonarle per affrontare scalzo un viaggio diverso da tutti gli altri ha un valore simbolico di rinnovamento, è una specie di “morte non convenzionale”. In astrologia i piedi rappresentano la possibilità di ritornare al grembo materno; forse è l’inconscio a suggerire a Roque di trascorrere il resto della propria vita sulle acque del delta del Paraná o forse il desiderio di emulare il padre, che scomparve proprio solcando quel fiume. In ogni caso, il nuovo — e ultimo — capitolo della storia di Roque ha tutto l’aspetto di un ritorno alle origini, a quelle tiepide acque in cui era immerso nel grembo della madre, a piedi nudi allora come oggi.