Storia, mito e utopia in “Baudolino”

La parola è un’arma potente e a volte può molto più della spada, specie se supportata da una fervida inventiva. Ne sa qualcosa Baudolino, sagace contadino che, grazie a una non comune capacità affabulatoria, compie un vero e proprio cursus honorum che lo porta laddove il padre — disperato per quel figlio discolo e scansafatiche — e neanche lui stesso avrebbero creduto potesse mai arrivare: nientemeno che alla corte di Federico Barbarossa. Un enfant prodige? Piuttosto un demiurgo che si serve delle parole per plasmare la realtà. Sì, perché, quasi per miracolo, tutto ciò che Baudolino inventa finisce per diventare vero e produrre Storia. Inventa e parla, Baudolino. E scrive. L’incipit della Kronica Baudolini cognomento de Aulario introduce Baudolino (Bompiani, febbraio 2016³, pp. 530), romanzo storico di Umberto Eco che è anche un’avventura picaresca con una sottotraccia gialla; vi si delinea una personalità vivace, ingegnosa, dai tratti comici e spassosi, che, in un bizzarro pastiche di latino ancora rudimentale e dialetto della Frascheta, confessa candidamente di aver rubato il supporto cartaceo. “Habeo facto il rubamento più grande de la mia vita cio è o preso da uno scrinio del vescovo Oto molti folii che forse sono cose della cancelleria imperiale et li o gratati quasi tutti meno ke dove non veniva via”, ammette con una punta di compiacimento.

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Se fosse la scena di un film, dopo aver indugiato a lungo sulla pergamena, l’inquadratura si sposterebbe sulle mani che la reggono e la rigirano, mentre una voce chiede: “Che cos’è?” È l’aprile dell’anno del Signore 1204. Costantinopoli è messa a ferro e fuoco dall’esercito crociato che lascia dietro di sé una scia di sangue e macerie e fa scempio dei tesori d’arte della capitale dell’Impero Romano d’Oriente. Niceta Coniate, storico e funzionario di corte, viene aggredito in Santa Sofia; già sente addosso l’alito della morte, quando viene salvato da un cavaliere in abito crocesignato. Nonostante la veste che indossa, egli non è un crociato. “L’ho preso a prestito”, rivela a Niceta leggendo lo stupore nei suoi occhi e si presenta come Baudolino di Alessandria, non la grande metropoli egiziana ma una città “tra le montagne del Nord e il mare, vicino Mediolano.” E Niceta, il salvato, si fa salvatore conducendo con sé Baudolino in un luogo sicuro, nell’attesa di fuggire insieme verso Selimbria. Le mani che reggono la pergamena sono proprio quelle di Niceta a cui, in qualità di insigne storico, Baudolino ha mostrato quel suo giovanile esercizio di scrittura che avrebbe dovuto preludere alle Gesta Baudolini, senonché, nel corso dei suoi viaggi, ha smarrito tutti gli appunti scritti negli anni ed è come se, insieme a essi, avesse smarrito la vita stessa. Niceta si offre di colmare quel vuoto e di scrivere la storia di quegli anni perduti.

“Racconterai a me quello che ricordi. A me arrivano frammenti di fatti, brandelli di eventi, e io ne traggo una storia, intessuta di un disegno provvidenziale. Tu salvandomi mi hai donato il poco futuro che mi resta, e io ti ripagherò restituendoti il passato che hai perduto.”

“Ma forse la mia storia è senza senso…”

“Non ci sono storie senza senso. E io sono uno di quegli uomini che sanno trovarlo anche là dove gli altri non lo vedono. Dopo di che la storia diventa il libro dei viventi, come una tromba squillante che fa risorgere dal sepolcro coloro che erano polvere da secoli […]”

Così, mentre le fiamme divorano le gloriose vestigia della capitale e durante la fuga verso Selimbria, Baudolino ripercorre le tappe della propria vita.

Egli trascorre i primi anni nella Frascheta, luogo del Piemonte dove — proprio davanti ai suoi occhi — sarebbe sorta Alessandria. Da lì Federico Barbarossa, conquistato dall’ingegno di quel giovane, lo trae con sé presso la Corte Imperiale e ne diventa padre adottivo. E, come un padre premuroso, Federico lo manda a studiare a Parigi dove il ragazzo stringe con alcuni colleghi dello Studium un sodalizio che non si scioglierà più; Borone, Kyot, Abdul, Rabbi Solomon e il Poeta, diverse origini, diverse culture ma uniti da un sogno comune nato da quella che sembrava “una fantasia da topi di biblioteca.” Affascinati, quasi ossessionati dai racconti sul mitico Presbyter Johannes — e trascinati da Baudolino — inventano una lettera nella quale costui — rex et sacerdos che si favoleggiava governasse sul più grande regno cristiano esistente, agli estremi confini del mondo, dove nessuno mai era giunto — riconosce la superiorità di Federico su tutti gli altri sovrani. Ancora una volta, ciò che Baudolino inventa diventa vero, al punto da muovere il Barbarossa alla volta di quel regno, per riconsegnargli la più preziosa reliquia della cristianità, il Gradale, da cui Nostro Signore bevve il vino nell’ultima cena. Il Gradale? Dove e come Federico era venuto in possesso del calice? Nessuna meraviglia! Quando c’è lo zampino di Baudolino, tutto è possibile! Per supportare la veridicità della lettera, egli ha “inventato” anche il Gradale che altro non è se non una modesta coppa di legno del padre Galiaudo. Ma questo poco importa, ora essa è il Gradale e tanto basta.

Il sogno federiciano di un ecumenismo imperiale e cristiano suggellato dalla restituzione della reliquia al legittimo proprietario, con la conseguente investitura di Federico a secondo lumen della terra dopo il Prete, conquista ed esalta anche gli uomini dell’Imperatore tanto che, dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta in circostanze misteriose durante la spedizione, Baudolino e i suoi sodali ne raccolgono l’eredità spirituale e continuano il viaggio. I dubbi che aleggiano sul tragico epilogo della vita dell’amato padre affolleranno per anni la mente di Baudolino, convinto che si sia trattato di omicidio e, solo alla fine della lunga avventura, egli scoprirà come erano andate le cose; la verità sarà sorprendente e lo sconvolgerà, perché apprenderà che anche la morte di Federico fu frutto della menzogna. E quale colossale menzogna!

Il viaggio verso il regno del Prete Giovanni conduce Baudolino e i suoi cavalieri in luoghi aspri e inospitali, a volte sotto un sole spietato che fiacca il loro corpo ma non la loro volontà di varcare per primi — e trionfalmente — i confini di quella terra beata e mitica. Grazie al tono epico e corale con cui Eco ne tratteggia le peregrinazioni, il lettore si sente parte integrante della comitiva, ne segue i passi da vicino, ne avverte ora lo scoramento ora il riconfortarsi; e, insieme a loro, giunge a Pndapetzim, anticamera del regno del Prete. Qui i nostri fanno conoscenza con quei popoli bizzarri che affollano i Bestiari medievali e, come Baudolino, il lettore si affeziona allo sciapode Gavagai; incontra i blemmi, privi di collo e testa ma provvisti sul petto di occhi, naso e bocca; i ponci, dalle gambe diritte senza giunture alle ginocchia e con gli organi sessuali posizionati sul petto; i panozi, dalle orecchie enormi.

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Sciapode
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Panozio
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Blemma

Il lungo viaggio della compagnia riecheggia l’Odissea o la spedizione degli Argonauti per le prove affrontate e per i luoghi fantastici che gli undici si trovano a visitare, come Abcasia, foresta perennemente immersa nelle tenebre, e il Sambatyon, fiume di pietra che nessuno prima aveva mai guadato. Odissea, ma anche pellegrinaggio; la comitiva è inizialmente composta da dodici membri, come dodici erano i Magi, che muovono alla volta del regno di un sant’uomo per onorarlo con un dono di inestimabile valore. Un viaggio che sviluppa il tòpos — caro ai romanzi cavallereschi medievali — della quête, la ricerca di un oggetto del desiderio che è principio dinamico dell’azione. Ognuno si mette in cammino animato da un obiettivo: Baudolino intende portare a termine l’impresa iniziata da Federico; Abdul insegue la principessa amata e cantata nei suoi versi; Rabbi Solomon vagheggia di ricongiungersi con le dieci tribù giudaiche disperse; tutti gli altri sono in cerca di gloria.

Pndapetzim è retta formalmente dal Diacono Giovanni, giovane, malato e segregato in una stanza da cui non gli è permesso uscire. Baudolino instaura un legame di amicizia con questa figura elegiaca e dolente che non ha mai potuto vedere il mondo né goderne. E, anche in questo caso, grazie al potere demiurgico della parola, Baudolino materializza davanti agli occhi del Diacono le meraviglie del lontano Occidente e così gli dona quella vita che, per la sua malattia e per la sua carica, gli è stata negata. “Soddisfacevi il tuo gusto per la favola, eri orgoglioso delle tue invenzioni”, osserva Niceta. “Forse, ma per il poco che ha ancora vissuto, l’ho reso felice”, replica Baudolino.

Il gruppo è ormai davvero a un passo dal regno del Prete, quando un elemento perturbante interviene a sconvolgere i piani. Baudolino continuerà la sua quête o la abbandonerà? Quel regno — si chiederà lui stesso — esiste davvero o è solo un’utopia? Utopia, forse, però essa ha dato un senso e un obiettivo ai suoi giorni. L’utopia — il luogo che non c’è — sostanzia e guida le gesta di Baudolino e la menzogna è per lui una scelta di vita, una vocazione di cui prende pienamente coscienza in seguito a un evento drammatico.

“[…] avevo speso sino ad allora la mia vita a immaginare creature di altri mondi […], ma poi, quando il Signore mi aveva chiesto di fare quello che fanno tutti gli uomini, avevo generato non un portento bensì una cosa orribile. Mio figlio era una menzogna della natura […], ero bugiardo e avevo vissuto da bugiardo a tal punto che anche il mio seme aveva prodotto una bugia. Una bugia morta. E allora ho capito…”

Due anime convivono in Baudolino, una popolaresca, l’altra cortese. La prima deriva dalle sue umili origini, nella Frascheta, terra che gli trasmette, insieme al primo nutrimento, una sana scaltrezza, il buon senso e la capacità di fare di necessità virtù. La seconda è figlia dell’educazione che Baudolino riceve presso la corte di Federico. Cortese è l’amore verso Beatrice, moglie del Barbarossa, un amore adultero e inappagato, che si risolve nella venerazione della dama, fa ardere di passione l’innamorato e lo consuma nel tormento. Baudolino conosce l’amore anche in altre declinazioni: sposa la giovanissima Colandrina, che rappresenta la tranquillità del focolare domestico e che gli ispira un tenero affetto, più fraterno che coniugale. E poi l’amore totalizzante, esclusivo, travolgente per Ipazia, fatto di intesa spirituale e possesso fisico.

Umberto Eco ha messo in campo tutto il suo sapere di medievista in questa summa in cui nessun aspetto della cultura dell’epoca è trascurato, e lo fa con una prosa priva di pedanteria e senza far pesare la propria erudizione. Al contrario, spesso il professore scende dalla cattedra e non disdegna un registro gergale, a volte perfino volgare; ne risultano passaggi esilaranti e gradevoli. Numerosi sono i riferimenti metaletterari che è dato cogliere nel romanzo e vi compare una autocitazione da Il nome della rosa. “Come diceva queltale il police mi duole”, scrive Baudolino nella chiusa del manoscritto, dove “queltale” è Adso da Melk.

Dopo aver visto Baudolino crescere e diventare un uomo, dopo averlo seguito fino ai confini del mondo, non si può non affezionarsi a lui, cosicché, chiudendo il libro dopo l’ultima pagina, si ha l’impressione di salutare un compagno di viaggio. Anche noi, proprio come Federico, ne siamo stati conquistati.

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